Lotta Europea

Lotta Europea

lunedì 28 marzo 2011



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sabato 26 marzo 2011

Lo avete chiamato dittatore, ma gli baciavate la mano. Avete atteso la risoluzione dell’ONU, ma non la rispettate. Parlate di no fly zone, ma invocate l’invio di truppe di terra. Dovete proteggere i ribelli, ma bombardate la capitale. BASTA BUGIE! SIETE IN GUERRA PERCHE':

perché Gheddafi ha osato gestire autonomamente le proprie riserve petrolifere;

perché Gheddafi ha sfidato la leadeship saudita nell'OPEC;

perché il sogno nucleare sta svanendo e avrete bisogno di combustibili fossili;

perché la Francia deve recuperare gli spazi persi nel Maghreb;

perché l'Africa sta diventando terra di conquista della Cina;

perché, terminate le ostilità, ci sarà una nazione da ricostruire;

perché, terminate le ostilità, l'instabilità politica autorizzerà una presenza militare occidentale;

perché, terminate le ostilità, il nuovo governo libico in nome del libero mercato svenderà le imprese di stato alle multinazionali occidentali.

SIETE IN GUERRA PERCHE' IL LORO SANGUE VALE MENO DEL VOSTRO PETROLIO!
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mercoledì 23 marzo 2011



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martedì 22 marzo 2011

Si è da poco festeggiato il 150° anniversario dell’unità d’Italia, evento che, dato in pasto al popolino, si è portato dietro con sé il solito strascico di retorica martellante, di sentimentalismi e di pomposo patriottismo, degno di ogni festa nazionale nostrana che si rispetti.
Ma non solo.
L’occasione ha reso possibile portare in risalto un problema ancora senza soluzione, congenito alla nascita dello stato italiano ma comune a molte nazioni europee. Quello delle identità.
Abitualmente si tende a non mettere in discussione l’effettiva coerenza tra l'identità nazionale e l’identità del popolo stesso che risiede in una determinata nazione, come se fosse scontato che l’una sia diretta conseguenza dell’altra.
Proviamo, invece, a farlo.
Pensiamo, per un attimo, che nel processo di individualismo collettivo e di razionalizzazione delle identità, che ha portato alla creazione delle nazioni in senso moderno, qualcosa non è andato secondo logica. Proviamo, per un attimo, a pensare che nella logica del pesce-grande-mangia-pesce-piccolo, il “mangiare” significò imporre oltre che un dominio politico, di potere, anche uno di identità, culturale.
Pesci piccoli che ora, quasi miracolosamente, continuano a sopravvivere raschiando il fondo dello stagno dove sono stati confinati e non smettono di chiedere di essere riconosciuti per quello che sono. Rispondono ad una semplice logica, naturale: radici profonde non gelano. E le loro radici, spesso più antiche delle nazioni a cui questi popoli appartengono, sono i loro costumi, la loro lingua, i loro usi, la loro cucina: la loro identità.
Queste radici non gelano neanche di fronte alla società dei consumi, alla globalizzazione e all’appiattimento culturale imposti da nazioni all'apice della decadenza, animate da identità fittizie, create ad arte. Queste radici non gelano perché, mentre le nazioni europee cercano febbrilmente il modo migliore per servire il nuovo ordine mondiale, Irlandesi, Baschi, Fiamminghi, Corsi, Tirolesi e decine di altri popoli, si battono per essere liberi di essere ciò che sono: popoli d’Europa.
La tutela delle identità e delle autonomie e il riconoscimento di ciò che esiste: sarà questa la battaglia del futuro per una grande nazione europea che faccia da madre a centinaia di popoli liberi, riuniti in lei dallo stesso ordine politico che colora la sua bandiera (nero-bianco-rosso), sul piano identitario universale, ma allo stesso tempo tutelati nelle loro differenze, sul piano delle identità particolari. Non quindi un “etnonazionalismo utile”, di retaggio wilsoniano, diretto a mantenere il divide et impera dell’occupante e a riproporre in piccola scala il nazionalismo, utile appunto a frantumare dall’interno gli stati pericolosi per l’ordine americano. Ma una Europa, compatta e indipendente, che abbia il coraggio di affrancarsi dalle logiche dell’invasore e recuperi quel grande insegnamento di armonia politica che la storia gli ha consegnato: il particolare nell’universale.
Fu la grandezza di Roma, sarà la forza della nuova Europa!
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lunedì 21 marzo 2011


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domenica 20 marzo 2011

Anche se non crediamo alle ragioni umanitarie della guerra in Libia, non possiamo non ricordare chi è stato Mu’ammar Gheddafi e quali sono stati i suoi rapporti con l’Italia.
Più precisamente: non possiamo dimenticare il più che probabile coinvolgimento libico nella strage alla stazione di Bologna.
Il nostro Paese, superata la crisi diplomatica seguita alla cacciata degli italiani dalla Libia, iniziò bene presto a stringere rapporti economici con Tripoli: la Libia divenne il principale fornitore di petrolio (con una media di trecentomila barili di combustibile al giorno) e la FIAT superò le sue difficoltà economiche grazie all'immissione di ingenti capitali libici. Una rinnovata amicizia tra Roma e Tripoli suggellata, nel 1971, dall’intervento del SID teso a sventare, a Trieste, un tentativo di rovesciamento della presidenza di Gheddafi, organizzato dalla Gran Bretagna tramite un gruppo di esuli libici.
I rapporti si incrinarono in seguito alla morte di Moro, quando l’Italia mutò indirizzo strategico, tornando ad una politica estera fedele ai dettati di oltreoceano, abbandonando quella tendenza autnomista che aveva permesso a Roma di intrattenere rapporti con i paesi arabi (Mattei docet).
La situazione degenerò quando, nel silenzio della stampa italiana, il premier maltese Dom Mintoff e il sottosegretario italiano agli esteri Giuseppe Zamberletti si apprestavano a sottoscrivere un trattato che decretasse l'allontanamento dei libici dalla piccola isola. Una mossa che attirò le ire di Gheddafi (già preoccupata dallo schieramento dei missili a Comiso): il direttore del Sismi Giuseppe Santovito (affiliato alla P2, e coinvolto nei depistaggi delle indagini su Bologna), nei giorni precedenti l'accordo, provò ad avvertire Zamberletti che si stava esponendo il paese a gravi rischi, ma qualche giorno dopo ritrattò queste sue dichiarazioni. Ad ogni modo, i suoi consigli rimasero inascoltati: il 2 Agosto a La Valletta l'accordo fu firmato mentre a Bologna saltava in aria la stazione ferroviaria.
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sabato 19 marzo 2011

L'ONU ha autorizzato la "no fly zone" sulla Libia, e la NATO si prepara ad "azioni appropriate" per dare effetto alla risoluzione (il virgolettato è del segretario generale Rasmussen): fuori di metafora, ci si prepara all'intervento militare.
Uno scenario che non fa che dimostrare, per l'ennesima volta, come se ce ne fosse ancora bisogno, alcune nostre radicate convinzioni.
Primo, che il colore (politico, non fraintendeteci!) dell'inquilino della Casa bianca non modifica la politica estera statunitense: la dottrina Bush, che all'indomani dell'11 settembre ha sancito la legittimità dell'intervento ovunque fossero a rischio gli interessi di Washington è ancora in vigore, anche in tempo di presidenza Obama. Solo che per schierarsi, il presidente abbronzato ha atteso la più che scontata risoluzione ONU contro il dittatore di turno.
Secondo, che il colore dell'inquilino di Palazzo Chigi non modifica la politica estera italiana: come il governo D'Alema ai tempi della guerra in Serbia, così l'esecutivo Berlusconi, per bocca del ministro La Russa, ha messo a disposizioni sette delle proprie basi "senza alcun limite restrittivo all'intervento". Nonostante i passati baciamano. E l'opposizione non ha perso tempo a mostrare la propria inconsistenza politica, accodandosi al coro degli interventisti: "la Grande Proletaria si è mossa".
Terzo, che Al-Qa'ida non è altro che il paravento dietro cui si nascondono gli interessi statunitensi-sauditi. Come in questo caso: Gheddafi, infatti, è da tempo fiero avversario dell'Arabia e dei vari emirati del Golfo. Nemico economico perché concorrente nelle esportazioni petrolifere verso l'Occidente: Gheddafi arrivò, nel 1976, ad organizzare il rapimento dei ministri dell'Opec a Vienna come vendetta per la linea ribassista imposta da Riad nella politica del prezzo del petrolio. Una avversione alla tendenza saudita, condivisa anche dall'Iraq di Saddam Hussein (già destituito da un intervento militare), dall'Algeria (altro focolare di rivolta), dall'Iran (prossima vittima?) e dal Venezuela. Nemico politico, da sempre schierato contro la dinastia saudita, tanto da accusare pubblicamente, durante una riunione plenaria della Lega Araba nel 2003, re Abdullah, colpevole di aver permesso la violazione della Mecca in occasione della prima Guerra del golfo nel 1991.
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martedì 15 marzo 2011

17 marzo 1861: Vittorio Emanuele II è proclamato Re d’Italia. È l’ultimo atto di una storia secolare, iniziata nel 1789: la resistenza delle masse controrivoluzionarie alle “magnifiche sorti e progressive” che, con la Rivoluzione Francese, avevano fatto irruzione nel loro orizzonte. Una lotta tra due visioni del mondo inconciliabili. Una storia ricca di avvenimenti, azioni, persone e idee: i Vandeani del 1793 e del 1832, i Lazzari napoletani, la Brigata Estense, i Barbacani pontifici, i briganti meridionali, gli ufficiali europei che guidarono le sollevazioni antiunitarie.
La storiografia ufficiale (che nel migliore dei casi ricorda questi avvenimenti en passant, come episodi di vana resistenza di gente fuori dalla storia, consegnata ad un mondo scomparso) non può nascondere la reazione popolare alla Rivoluzione e al Risorgimento. Una reazione popolare che fu opposizione militare e civile contro gli uomini e le idee che tendevano alla distruzione della fede cattolica. Una reazione popolare che fu profondo senso di fedeltà dinastica ai re legittimi che, soli, garantivano l’indipendenza e gli assetti della comunità organica naturale. Una reazione popolare che fu argine al liberalismo economico che, arricchendo la borghesia, avrebbe gettato le classi deboli nella vera miseria (“chi tiene pane e vinu ‘a da ess’ giacubbinu”).
La rivolta antiunitaria delle popolazioni meridionali impegnò nella repressione un esercito di circa 120mila uomini, tenendolo, spesso, in scacco. Perché i pontefici o i Borboni, campioni (secondo la vulgata) di malgoverno, di assolutismo, di soprusi e di oppressioni, non conobbero mai una sollevazione ed una ribellione così forte e di tale lunga durata? Perché Mazzini o Pisacane non attrassero e non ebbero dalla loro le popolazioni contadine del Sud? Perché queste insorsero spontaneamente e con veemenza contro quella stessa classe dirigente che diceva di combattere in suo nome? Il popolo non seguì i principi di purificazione scritti sulle bandiere dell’esercito piemontese, aveva nella mente e nel cuore idee di Libertà diverse: non le astrattezze illuministiche, ma realtà concrete. Non l’astratta nazione, ma la concreta comunità. Come aveva scritto anni prima Monsieur de Charette, uno dei capi vandeani, “la nostra patria per noi sono i nostri villaggi, i nostri altari, le nostre tombe, tutto ciò che i nostri padri hanno amato prima di noi. La nostra Patria è la nostra fede, la nostra terra. Ma la loro patria che cos’è per loro? Loro l’hanno nel cervello, noi la sentiamo sotto i nostri piedi”.
L’intera vicenda degli Stati pre-unitari, delle loro Armate della Santa Fede, delle Vandee, delle Gaeta, dei briganti e delle Real Brigate è una delle ultime espressioni di una contrapposizione frontale all’aggressività della modernità, letta come incarnazione dell’ideologia borghese, illuminista e razionalista, divenuta territorio occupato dal nichilismo, dove ogni contatto con l’assoluto diviene impossibile.
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sabato 5 marzo 2011

Per conoscere la reale natura di Fini non c’era bisogno dello scandalo estivo dell’appartamento monegasco, la rottura con Berlusconi, il dito puntato contro quest’ultimo, la cacciata/fuoriuscita dal PdL, la nascita del FLI o la fine ingloriosa dell’omonimo gruppo al Senato. Né ci serviranno le future puntate di questa telenovela tutta italiana.
Così non ci siamo stupiti della sua ennesima conversione, ultimo passo di una lungo percorso iniziato all’ingresso di un cinema bolognese dove era in proiezione “Berretti Verdi” e finito sullo scranno più alto di Monte Citorio: passo dopo passo, abiura dopo abiura, tradimento dopo tradimento, con una vistosa accelerata a partire dal 2002/2003, quando, chiamato a rappresentare l’Italia presso la commissione incaricata di redigere la Costituzione Europea, fu iniziato ai circoli del potere politico-finanziario di Bruxelles, come un bambino al primo giorno di scuola (sono le sue parole). Ci è chiaro da tempo il suo obiettivo di trasformare la destra italiana in nuovo Partito d’Azione, “degno del miglior Scalfaro d’annata” (è la felice intuizione con cui Ernesto Galli della Loggia ha liquidato la nuova, e vuota, religione della costituzione professata da Fini).
Ha ragione Camillo Langone: è inutile perdere tempo e parlare di Fini o delle sue idee, basta guardare le sue improbabili cravatte rosa.
Qualche parola va invece spesa per osservare quanto si muove dietro lo scontro Fini-Berlusconi e scoprire chi sta dietro Fini e i suoi uomini, pronto ad approfittare di inediti scenari futuri.
Il primo a godere di un’eventuale caduta del Cavalierei? Rupert Murdoch, l’imprenditore leader mondiale delle telecomunicazioni e patron di Sky, principale concorrente di Mediaset: suo figlio, James Murdoch, ha concordato con Fini, Bocchino e l’ex finiano Barbareschi, il lancio di un nuovo canale, Babel, dedicato al grande della cittadinanza, tanto caro, ultimamente, al presidente della Camera.
Stretti anche i contatti con la magistratura, in particolare con l’Anm di Palamara e, tramite Granata, con il pool siciliano di indagine sulle trattative Stato-Mafia.
Ma a pesare sono soprattutto i legami con l’imprenditoria campana. Italo Bocchino (vicepresidente, sebbene contestato, di FLI) possiede partecipazioni nella società editrice del quotidiano Il Roma (di cui è stato anche amministratore) e forti legami con Vincenzo Maria Greco, già tutto-fare di Cirino Pomicino e plurindagato per Tangentopoli. A Tangentopoli rimanda anche la moglie di Bocchino, la figlia di Eugenio Buontempo, imprenditore napoletano, condannato per corruzione.
In Campania opera anche Livio Cosenza, impegnato (insieme a Finmeccanica e Pirelli) in un progetto da 600 milioni per riqualificare l’area dei Campi Flegrei con la costruzione di stazioni ferroviarie, porti, strade e parcheggi. Indovinate chi, in Parlamento, ha dichiarato lo stato di emergenza per l’area e ha richiesto un finanziamento pubblico del progetto pari a 500 milioni? Sua figlia: Giulia Cosenza, deputata finiana.
Infine, una veloce scorsa ai nomi del Consiglio della fondazione FareFuturo: Emilio Cremona (presidente del gruppo metallurgico Focrem), Giancarlo Ongis (presidente e ad del colosso Metal Group Spa), Rosario Cancila (azionista di "Immobiliare agricola lo Schioppo", i cui soci sono i figli di Adolfo Urso).
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