Lotta Europea

Lotta Europea

martedì 27 marzo 2012

Durante una lezione tenuta alla Columbia University, il premio Nobel Joseph Stieglitz, parlando della situazione economica europea, ha spiegato come in realtà la BCE esegua gli ordini dell’ISDA, un’organizzazione finanziaria il cui acronimo di tolkeniana memoria sta per “International Swaps and Derivatives Association”. In parole povere: si tratta di un organizzazione privata, con sede a Londra, che gestisce un capitale di 47.000 miliardi di euro, che non influisce bensì PRENDE le più delicate decisioni finanziarie in Europa.


Che la BCE agisca sotto dettatura dei privati non è una grande notizia, che i burattinai del mondo non si nascondano in delle buie cripte ma si muovano sotto la luce del sole (e del web) comincia però a preoccupare. Infatti nel sito dell’ISDA vienne illustrato molto del loro “lavoro” e ogni volta le loro idee si trasformano in azioni, realizzate e concretizzate dai vari Sarkozy, Merkel e Monti. Il nostro premier, non a caso, a fine febbraio si è incontrato a New York con un certo Lim Teng Joon, un esperto di gestione delle risorse economiche europee e delle loro applicazioni economiche, che, oltre ad essere un professore (e tra professori e presidi ci si intende) è il rappresentate italiano nell’ISDA. Se il suo nome non fa pensare certo a radici mediterranee (al contrario, viene da Singapore), il suo lavoro basta a farne il nostro ambasciatore: da quando gli emiri hanno acquistato il 6,5 % del capitale di Unicredit (quota sufficiente per imporre qualsiasi decisione), il tecnico è il controllore della pianificazione degli investimenti in Europa di quella baanca. E ciò a quanto pare basta per far parte di questa lobby finanziaria che vede tra i suoi numerosi membri rappresentanti delle maggiori banche mondiali: Morgan Stanley, UBS, JP Morgan, Deutsche Bank, Goldman Sachs, BNP, HSBC, Black Rock Investment, etc. etc.




L’oligarchia liberale si è talmente affermata che questi soggetti possono determinare la politica mondiale senza nascondersi, riuscendo addirittura a trasformare agli occhi di tutti il governo dei pochi (e non dei migliori) nel governo del popolo, la finanza in politica.
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lunedì 26 marzo 2012

Chi è Joseph Kony? A chi se lo fosse chiesto, dopo aver visto e condiviso il video che in questi giorni circola in rete denunciandone gli efferati crimini, rispondiamo che è il capo di un gruppo di ribelli (Lord Resistance Army) ostile al presidente dell'Uganda Museveni, al potere dal 1986. Sicuramente, neanche lui un devoto dei diritti umani.

Il video che sta spopolando sul web è promosso dall’ONG Invisible Children, un’associazione che, con metodi assolutamente democratici, sta cercando di denunciare le azioni di guerra e i crimini contro l’umanità di Kony, cercando renderlo famoso anche agli occhi degli occidentali, cui viene presentato come l'ennesimo criminale da fermare ed abbattere. Un video che però, confezionato per i media occidentali, non è piaciuto al popolo ugandese e ai familiari delle vittime degli stessi ribelli, convinti, giustamente, che quella dei perfetti democratici di Invisible Children sia solo l'ennesima battaglia a scopo di lucro.

Tanto più che l'LRA non è un reale pericolo in Uganda, operando prevalentemente nella Repubblica Democratica del Congo e nella Repubblica Centroafricana, finanziati dalle potenze occidentali per creare disordini e crisi da governare, controllando, di conseguenza, un'area che, al centro dei guturi scenari energetici, fa gola a tutti. Divide et impera. La prova è fornita dal recente golpe militare del Mali, dove, la situazione, già descritta da Lotta Europea nelle settimane scorse, è evoluta nella presa del potere da parte dei militari governativi filostatunitensi.

Gli esportatori di democrazia hanno iniziato così una nuova campagna di giustificazione della propria crescente pressione militare in Africa, sotto lo sguardo cosciente di tutto il mondo, che invece di denunciare questa invasione, la acclamerà. Come nel 1945.
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venerdì 9 marzo 2012

Il Consiglio Nazionale Siriano (CNS), organizzazione che riunisce le opposizioni estere di Damasco, con sede ad Istanbul, è stato riconosciuto legittimo dall'Unione Europea. Il consiglio di Bruxelles si è così schierato apertamente e definitivamente dalla parte dei cosiddetti "Amici della Siria", voltando le spalle anche agli altri movimenti di opposizione, contrari al CNS perchè favorevole ad un intervento straniero. L'Unione Europea ha inoltre annunciato "ulteriori misure restrittive mirate contro il regime", colpevole di "violenze e abusi dei diritti civili". Abusi che, come abbiamo già scritto, sono privi di qualsiasi prova che possa confermarli.
Da ultimo, anche lo stesso portavoce dell'Alto commissariato dell'Onu per i diritti umani, Rupert Colville, pur avendo denunciato 17 esecuzioni capitali che l'esercito siriano avrebbe compiuto ad Homs dopo aver ripreso il controllo della città, ha ammesso di non essere in grado di confermare le informazioni sui crimini commessi dai militari, in quanto fornite unicamente dalle stesse parti in causa e quindi quantomeno parziali.
L'appoggio agli "Amici della Siria" va letto nell'ottica di un più ampio scenario geopolitico: la caduta di Assad costituirebbe il presupposto per la creazione di un nuovo corridoio di accesso alle riserve energetiche irachene alternativo ad uno stretto di Hormuz sempre più instabile.
Una storia già vista in Egitto dove, dopo la caduta di Mubarak, è stato potenziato per lo stesso motivo il transito del greggio attraverso l'oleodotto di Sumed.

P.S.
Un dettaglio: la città sede del CNS. E ancora c'è chi crede alla favola della Turchia leader del mondo arabo in chiave antisionista...
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Lo scorso 5 marzo si è tenuto l’annuale congresso dell’AIPAC (American Israel Public Affairs Commettee), la lobby pro israeliana di Washington, durante il quale Obama e Netanyahu hanno lungamente discusso sulla situazione nucleare iraniana. La posizione della Casa Bianca a riguardo sembra sempre la stessa: nonostante le rassicurazioni di turno su un aiuto che non tarderebbe ad arrivare nel caso in cui Israele intervenga militarmente, ha fatto intendere che per il momento preferisce risolvere “diplomaticamente” la faccenda, anche per timore delle conseguenze che un ulteriore impegno militare potrebbe provocare sull'imminente tornata elettorale e sulla già avanzata crisi finanziaria.
Nulla di nuovo, quindi.
Ma è strano, veramente, pensare che ad essere stati investiti dell'onore di proteggere il mondo intero da un’eventuale escalation nucleare sia stata l'unica potenza che l'atomica l'ha utilizzata, sganciandola sui cieli di Hiroshima e Nagasaki. Direttamente nelle mani del carnefice.
Ed è veramente strano che l'Occidente tutto guardi inorridito al programma nucleare di Teheran e tremi per il destino di Israele, l'unico stato del Vicino Oriente a possedere materialmente una ottantina di testate nucleari non dichiarate nonché uno dei pochi stati al mondo a non aver sottoscritto il Trattato di non proliferazione nucleare (TNP).
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Venerdì 16 marzo 2012 - ore 20.30

FORTEZZA EUROPA Pub

Viale di Tor di Quinto, 57/b - Roma
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martedì 6 marzo 2012

Nel fine settimana, gli Stati Uniti hanno aperto un nuovo fronte di guerra: il Mali. Un areo militare U.S.A., infatti, ha ha lanciati viveri e aiuti per i locali militari governativi, asserragliati nel campo di Tessalit, assediato dai miliziani del Movimento nazionale per la liberazione dell’Azawad (Mnla) in un'area completamente isolata dal resto del Paese. Un impegno al momento tutt'altro che pesante in uno scenario secondario e periferico che, a ben vedere, conferma la strategia di rinnovato interesse per il continente nero che già da tempo abbiamo denunciato.
Gli interessi di Washington nel Sahel non sono cosa nuova: già da tempo, infatti, la Casa Bianca premeva sul governo del Mali perché autorizzasse l'installazione di basi militari nei loro territori, ricevendo, però, sempre risposte negative. Il referente del Paese africano, infatti, era, fino a pochi mesi fa, l'ex-colonia Francia, la quale, però sembra avergli voltato le spalle, avendo apoggiato la ribellione Tuareg nei territori settentrionali. Quale il motivo di tanto interesse? Semplice: il paese è il terzo produttore mondiale di oro, il cui prezzo negli ultimi anni è passato dai 370 ai 1600 dollari. Quanto basta perché l'USAF faccia rotta verso queste terre.

L'operazione militare dei giorni scorsi potrebbe segnare la svolta definitiva nella politica estera maliana e una premessa perché le richieste statunitensi vengano "finalmente" accolte.
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