Lotta Europea

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lunedì 6 settembre 2010

La crisi di Obama

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“American combat mission in Iraq has ended”: il 31 agosto, annunciando il ritiro delle truppe da Baghdad, Obama ha utilizzato parole assai diverse rispetto a quelle usate dal suo predecessore che nel 2003 affermò, quantomeno prematuramente “missione accomplished”. Del resto, quasi in contemporanea, le autorità irachene informavano che nel solo mese di agosto ultimo scorso in tutto il Paese sono stati uccisi, in attacchi e attentati suicidi, 426 persone, di cui solo 54 soldati (e 77 agenti di polizia). Ciò nonostante, con le elezioni di midterm in programma tra una decina di settimane, il premio Nobel per la pace si è visto costretto ad annunciare la fine delle ostilità, per tentare, in questo modo di dare una sterzata alla sua popolarità in forte calo tra l’elettorato. Ma nel suo discorso Obama ha “dimenticato” di accennare ai 50mila militare U.S.A. che rimarranno in Mesopotamia affiancati da altrettanti contractors per un totale di circa 100mila uomini armati al servizio della Casa Bianca.
Allo stesso tempo, mentre confermava il ritiro delle truppe dall’Afghanistan, Obama sottolineava che il ritmo del rientro dei militari da Kabul sarà determinato dalle condizioni sul terreno, condizioni che al momento sono drammatiche (il 2010 si sta confermando l’anno più sanguinoso dall’inizio delle ostilità mentre un recente reportage del Washington Post ha accusato di corruzione la Kabul Bank, il più grande istituto di credito privato del Paese, di cui Mahmud Karzai, fratello del presidente Hamid, detiene il 7%).
La necessità di ottenere al più presto un successo politico in ambito internazionale ha spinto Obama ad aprire in pompa magna, giovedì scorso, i negoziati di pace diretti tra Israele e ANP. Tuttavia, dopo la stretta di mano e le foto di rito, Abbas e Netanyahu hanno ribadito ciascuno le proprie condizioni necessarie a garantire la continuazione dei negoziati, le stesse che fino a pochi giorni fa invece erano indicate tanto dal presidente palestinese, quanto dal premier israeliano, come i principali ostacoli al processo di pace: il rinnovo della moratoria sulle costruzioni nelle colonie in Cisgiordania per il primo e il riconoscimento di Israele come Stato a carattere ebraico per il secondo.

Il “bluff” del successo diplomatico di Obama potrà durare, però, solo fino al 26 settembre quando Netanyahu annuncerà, come previsto, la ripresa delle edificazioni negli insediamenti illegali in Cisgiordania. Costringendo così Abbas a mettere fine questa farsa del colloquio: la colpa del mancato accordo ricadrà, ancora una volta, sui palestinesi e Israele potrà continuare a portare avanti senza troppi problemi la propria politica coloniale.

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