Lotta Europea

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giovedì 15 maggio 2014

La Cina, è noto, ha fame di energia per sostenere la propria industria manifatturiera e di conseguenza la propria irrefrenabile crescita economica: nella speciale classifica dei principali consumatori di energia, ha ormai scavalcato gli Stati Uniti e conquistato la vetta, con 2735 tonnellate equivalenti di petrolio (il 22% dei consumi mondiali).  Il 13% del suo fabbisogno energetico è soddisfatto tramite importazioni: in controtendenza rispetto al rivale americano, che ha visto scendere il proprio tasso di dipendenza dal 21% al 17% nel biennio 2011-2012, il tasso cinese è più che raddoppiato rispetto al 6% del 2011. Infine, va considerato come attualmente la Cina derivi la propria energia essenzialmente dal carbone (68% del totale) piuttosto che dal petrolio o dal gas naturale (5%).
Di fronte a questi dati, la strategia di Pechino per assicurarsi un certo grado di stabilità non può che strutturarsi su una direttiva duplice: da una parte la diversificazione del proprio mix energetico (a favore di materie prime più conveniente e meno inquinanti) e dei paesi fornitori, dall'altro lo sviluppo della produzione interna.
Nell'ambito del primo obiettivo, quello della diversificazione delle fonti, rientrano i recenti accordi siglati con la Russia che, per parte sua, a tutto l'interesse ad aprire i propri mercati di export a Oriente, stante la situazione critica con l'Ucraina e l'Europa: il contratto di 25 anni sottoscritto tra Rosneft e Cnpc ha ad oggetto la fornitura di 365 milioni di tonnellato di petrolio (per un valore totale di 270 miliardi di dollari), mentre si stringono i tempi per un'ulteriore accordo trentennale tra Gazprom e Cnpc per la fornitura di 28 miliardi di metri cubi di naturale, destinati a crescere nel tempo fino ad un massimo di 68 miliardi.
Dall'altra parte, è notizia di questi giorni lo scontro tra Cina e Vietnam a seguito dell'avvio delle perforazioni cinesi in prossimità delle isole Paracel, contese tra Cina, Vietnam e Taiwan: è la prima volta che un'azienda cinese conduce da sola un'attività di perforazione in mare aperto. Lo scopo è chiaro, come chiaro era nel caso della sua nuova Air defense identification zone estesa fino alle isole Senkaku rivendicate da Tokyo:  estendere il più possibile i propri confini su acque in cui passano le principali rotte commerciali internazionali e che nascondo dai 23 ai 30 miliardi di tonnellate di petrolio e 16 trilioni di metri cubi di gas naturale.
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mercoledì 7 maggio 2014

Se non ci fosse il calendario a contraddirlo, qualcuno potrebbe credere di vivere nel 2001, all'indomani dell'11 settembre, quando Bush lanciava al mondo la sua dottrina politica basata sui due pilastri della guerra preventiva al terrorismo e dell'azione unilaterale. Anche se Bush non è più al potere, rimpiazzato da un presidente coloured idolatrato (almeno inizialmente) dall'intelligentia e dalla società civile tutte, nulla sembra cambiato, come i recenti fatti nigeriani stanno a dimostrare.
Nel mese scorso, a Chibok, nella regione Nord-Orientale del paese africano, 223 studentesse sono state rapite per essere vendute come schiave dai miliziani islamisti di Boko Haram (letteralmente, "l'istruzione occidentale è peccato"), gli stessi che la settimana scorsa hanno attaccato la città di Gamboru Ngala, distruggendo il mercato locale e uccidendo tra le 200 e le 300 persone. Palla presa al balzo, cinicamente, da Obama che ne ha approfittato per lanciare una nuova crociata contro il terrorismo islamico: "Dobbiamo affrontare il problema di simili organizzazioni che portano il caos nella vita quotidiana della gente". Detto fatto: l'intervento unilaterale, senza alcuna preventiva risoluzione ONU, è pronto ed è già stato avviato. Il portavoce della Casa Bianca Jay Carney ha affermato che è pronta a partire per il continente nero una task force composta da personale dell'esercito e della polizia specializzato in intelligence, investigazioni, negoziazione, condivisione delle informazioni e assistenza alle vittime di rapimento. A metterci i militari, per un'azione boots on the ground, ci penserà il Regno Unito, pronto ad inviare a seguito di una riunione notturna del Cobra (il comitato governativo per le emergenze) uomini delle forze speciali, mentre Hollande ha già promesso che "anche la Francia farà di tutto per aiutare la Nigeria", precisando che "una squadra specializzata con tutti i nostri mezzi nella regione est è a disposizione della Nigeria".
L'ennesima dimostrazione che, repubblicani o democratici, poco cambia nella politica estera statunitense.
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giovedì 1 maggio 2014

L'agenzia statunitense Standard & Poor's ha annunciato di aver abbassato il rating russo sull'affidabilità creditizia dal livello BBB a BBB- e quello di lungo termine in valuta locale da BBB+ a BBB: in altre parole, un giudizio appena un gradino sopra la soglia di vulnerabilità di un investimento. E altri declassamenti sono all'orizzonte perché, come si legge nella nota di S&P's, "La situazione geopolitica tesa tra Russia e Ucraina potrebbe risultare in ulteriori, significativi deflussi sia come capitale estero sia nazionale dall'economia russa, compromettendo così le prospettive di crescita già deboli del Paese».
Una decisione, quella di S&P's, inserito in un più ampio attacco economico-finanziario condotto dagli Stati Uniti (con la complicità dell'Occidente tutto) nei confronti di Mosca. Un attacco che non può essere sottovalutato e Putin non si è fatto trovare impreparato. Infatti, il presidente, mentre dichiarava che le sanzioni imposte dagli U.S.A non avranno un impatto critico sul Paese, tesseva le reti diplomatiche per rispondere all'offensiva sul fronte del rating. E' di questi giorni, infatti, la notizia della fusione dell'agenzia di rating cinese Dagong e della russa Rus-Rating in una joint-venture di dimensioni tale da fare concorrenza alle omologhe statunitensi.
Ci vorrà tempo per erodere spazio alla "troika" SP's, Moody's e Fitch, ma a Mosca sanno portare pazienza.
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