Lotta Europea

Lotta Europea

martedì 22 ottobre 2013

La Cassazione, accogliendo il ricorso di Luisa Davanzali, erede di quell'Aldo Davanzali già proprietario dell'Itavia ha "definitivamente accertato" il depistaggio sulla tragedia di Ustica del 27 gugno 1980: ribaltato quindi il verdetto della corte d'appello che aveva escluso "l'eventuale efficacia di quella attività di depistaggio".
E' così crollato definitivamente il teorema giudiziario che voleva il DC-9 caduto a largo di Ustica per il cedimento strutturale di una di quelle "bare volanti" che proprio Aldo Davanzali avrebbe lasciato volare stante la crisi commerciale della sua compagnia aerea. Ora un nuovo processo civile dovrà, al contrario, valutare e giudicare le responsabilità del governo, e dei ministeri della Difesa e dei Trasporti, nel fallimento dell'Itavia, causato (o comunque accelerato) dall'attività di depistaggio che, nascondendo le reali cause del'esplosione, avrebbe determinato il discredito dell'impresa.
Ma quali sono queste reali cause dell'esplosione? Ora lo dice anche la Cassazione: "un missile sparato da aereo ignoto, la cui presenza sulla rotta del velivolo Itavia non era stata impedita dai ministeri della Difesa e dei Trasporti".
Insomma, quel giorno del 1980 sui cieli italiani si combatteva una guerra tra aerei di nazionalità diverse, libici e americane: una guerra che ha lasciato sul campo i corpi di 81 vittime innocenti. Vittime dell'imperialismo yankee e della subordinazione del governo italiano. Vittime del silenzio e delle menzogne di un'intera classe politica.
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lunedì 14 ottobre 2013

Un recente report della Banca Mondiale (ente tutt'altro che tacciabile di antisionismo) ha svelato quale è il reale peso delle restrizioni e dell'occupazione israeliana sull'economia palestinese: 3,4 miliardi di dollari. I calcoli dicono anche che se Israele lasciasse la Cisgiordania (dove "più della metà della terra è inaccessibile ai Palestinesi"), il PIL palestinese salirebbe del 35%.
Cifre che parlano da sole e che non bisognano di commenti. Piuttosto di sdegno per la politica di oppressione di Israele e per le anime candide dell'Occidente che plaudono alla sola "democrazia" del Vicino Oriente e quotidianamente ne piangono i soprusi subiti.
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martedì 8 ottobre 2013

Lotta Europea n°8
 
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giovedì 12 settembre 2013


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domenica 1 settembre 2013


Cinque anni dopo il conflitto vinto dalla Russia contro la Georgia e che portò alla sostanziale indipendenza dell'Ossezia del Sud, si riaccendono le ostilità tra i due paesi.
Sotto accusa i lavori svolti, a partire dal maggio scorso, dall'esercito russo (cui il governo locale ha appaltato il controllo del confine con la Georgia) che, costruendo una barriera di filo spinato a segnare il limes della regione, ne ha approfittato per spostare più avanti di alcune centinaia di metri il confine stesso dell'Ossezia nel territorio georgiano. Lavori che però non sono altro che la risposta all'annuncio di Tbilisi del raggiungimento del Membership Action Plan che, una volta confermato nel corso del 2014, costituirà il primo passo per l'organico ingresso all'interno della NATO, che si appresta così a stringere la morsa intorno alla Russia e ad avvicinare a questa le proprie truppe.
Intanto il 26 ed il 27 giugno scorso una delegazione del Consiglio NATO ha fatto visita al nuovo premier georgiano Ivanishvili.
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mercoledì 24 luglio 2013

Lotta Europea n°7
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martedì 23 luglio 2013


Il progetto per la realizzazione del gasdotto Nabucco è ad un punto morto e sembra stia conoscendo il suo definitivo tramonto. Il colpo fatale, forse decisivo, arriva dalla decisione del consorzio internazionale Shaha Deniz di preferirgli, per l'esportazione del gas azero, le condutture della Trans Adriatic Pipeline. La decisione del consorzio internazionale Shah Deniz di promuovere il progetto di gasdotto Trans Adriatic Pipeline (TAP) come principale corridoio d'esportazione del gas azero verso l'Unione Europea sembra sancire irrevocabilmente il tramonto del gasdotto Nabucco, enfaticamente definito nel corso degli anni come il flag project della strategia energetica europea: ciò significa, in altre parole, che il gas estratto a Shah Deniz, in Azerbaijan, transiterà per la Turchia, la Grecia e l'Albania per poi arrivare in Italia e, attraverso il collegamento all'Adriatico-Ionico (altro gasdotto in fase di progettazione), nei Balcani tra la Grecia e la Bulgaria.
Una sconfitta per la UE (che del Nabucco aveva fatto il suo flag project) e una vittoria per la Russia che continuerà ad essere il principale partner energetico dell'Europa (nonostante la tentata strategia di diversificazione delle fonti di approviggionamento). Mosca infatti potrà ora consolidare i propri legami con i paesi dell'Europa sudorientale esclusi dalla nuova rete di distribuzione (che sarebbero stati al contrario i primi destinatari del gas di Nabucco), mentre la portata del gasdotto TAP non scalfirà la sua posizione sul mercato europeo (messa in crisi invece dal Nabucco).
L'Unione Europea comprenderà mai che è proprio Mosca il nostro partner naturale?
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sabato 25 maggio 2013

E' tutto pronto per la conferenza di pace che entro quindici giorni si terrà a Ginevra e che vedrà intorno al tavolo i rappresentanti del legittimo governo di Damasco e dei ribelli oltre che di U.S.A. e Russia. Quello che si prevede, nonostante le intenzioni e le belle parole è un ennesimo nulla di fatto: le parti sono ben lungi da raggiungere un accordo su tutti i punti all'ordine del giorno. Primo fra tutti e fondamentale scoglio alle trattative: il futuro di Bashar el Assad. Mentre il presidente intende rimanere al potere fino alle elezioni presidenziali del 2014, l'opposizione chiede che lasci la capitale entro 20 giorni, con 500 persone a sua scelta, ma senza alcuna garanzia di immunità legale contro eventuali processi. In attesa di Ginevra intanto i ribelli, non soddisfatti dell'appoggio statunitense, ancora limitato ai vettovagliamenti, è andata in Turchia a battere cassa ad una delegazione dell'Arabia Saudita che, insieme al Qatar, è ancora il maggior sponsor della rivolta. Nel frattempo la giornalista russa Anastasia Popova, di ritorno dalla Siria, ci riporta alla realtà, ribaltando la versione ufficiale degli attacchi chimici ad Aleppo: accusando la Reuters e Al Jazeera di raccontare menzogne sulla guerra in Siria, la giornalista, dopo aver raccontato di esecuzioni sommarie, stupri di gruppo e torture di vario genere perpetrate dai ribelli nei confronti della popolazione civile, la giornalista ha dimostrato, testimonianze alla mano, che le armi chimiche sono state utilizzate dagli oppositori del FSA/Nusra. Una rivelazione che fa cadere come un castello di carte il teorema costruito da Obama nel corso del tempo per giustificare il proprio intervento. Nihil sub sole novum.
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lunedì 6 maggio 2013

Mentre Obama continua di volta in volta ad allontanare la red line dell'intervento armato in Siria per non aprire un terzo fronte di guerra in Medio Oriente, Netanyahu (evidentemente con il tacito nulla osta statunintense) rompe gli indugi e bombarda, per la terza volta dall'inizio dell'anno, siti e convogli di missili siriani. L'obiettivo non è certamente la costruzione di una nuova Siria a fianco degli oppositori ad Assad, quanto piuttosto la frantumazione dello stato di Damasco in tanti piccoli unità politiche eterodirette. Un attacco che è solo l'avvisaglia dei futuri conflitti con Iran e Libano, prossimi bersagli predestinati: Ahmadinejad avvisato, Ahmadinejad mezzo salvato? E intanto, se Washington ha deciso di lavorare all'ombra, Bruxelles è invece totalmente assente. E non è una novità.
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lunedì 25 marzo 2013


20 (venti) euro: tanti sono quelli che risparmierà la Candy per ogni lavatrice prodotta a Jiangmen, in Cina, anziché a Brugherio, in Brianza. 140 € anziché 160, costi industriali e spese di trasporto verso i grandi scali del Nord Europa compresi. Tanto basta perché perdano il lavoro 150 persone (un terzo degli addetti al montaggio), nonostante abbiano proposto di intensificare la produzione, arrivando a produrre 46 macchine l'ora contro le attuali 35. Niente da fare: a Brugherio si produrranno solo 450mila lavatrici (oggi se ne lavorano 700mila), a Jiangmen 3 milioni, in gran parte destinate al mercato europeo. Paradossi del libero mercato e del villaggio globale, che ha già portato alla chiusura di altri quattro impianti della stessa azienda in Italia, a Milano, Erba, Bergamo e Lecco.
Ed è solo l'ultima di una infinita lista di imprese, FIAT in testa, che hanno delocalizzato e stanno delocalizzando la propria attività, spostando la produzione nei paesi in via di sviluppo e nelle economie emergenti, dove il lavoro costa meno, la dignità dei lavoratori è calpestata e lo stato è assente (o finge di non vedere).
C'è ancora un futuro per l'industria italiana o il destino segnato è quello di diventare esclusivamente una meta turistica? C'è ancora spazio per la manifattura in un paese abitato ormai solo da artisti, designer e call center? La risposta ce la sta dando la Germania, dove i grandi produttori, superato il periodo buio della crisi, hanno mantenuto il grosso dell'attività in patria, complice uno stato che, capace di una visione strategica, è stato in grado di sostenere l'innovazione e le riconversioni industriali, con investimenti pubblici e piani sociali.
Ancora una volta, la risposta è Politica.
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sabato 23 marzo 2013

Se qualcuno aveva potuto credere alla favola di Ankara alla guida del mondo arabo contro Israele (noi non siamo mai stati tra questi), ora potrà facilmente ricredersi.
Durante il suo viaggio in Israele, Obama è riuscito a convincere il premier Netanyauh a telefonare al suo omologo turco Erdogan per offrire le scuse ed i risarcimenti alle famiglie per le morti causate dalla Marina israeliana a bordo della nave turca Mavi Marmara che nel maggio 2010 tentava di sfondare il blocco navale a Gaza. La risposta di Erdogan ha ricordato il fortissimo e storico legame fra i due popoli, rinnovato, ne siamo certi, più che dalla recente telefonata, dal comune interesse alle sorti di Assad e della Siria. Intanto i due paesi riallacceranno normali relazioni diplomatiche e torneranno a scambiarsi gli ambasciatori.
Noi ve lo avevamo detto.
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giovedì 21 marzo 2013

Domenica scorsa Viktor Chirkova, ammiraglio capo della marina russa, ha anunciato che da ora in avanti la Russia avrà sempre cinque o sei navi da guerra (sotto il comando della Flotta del Mar Nero) nel Mediterraneo orientale, dove, tra l'altro, due mesi fa Mosca ha condotto la più grande esercitazione militare dalla caduta dell'URSS: poca cosa rispetto alle trenta o cinquanta navi mantenute nell'area dalla Quinta flotta sovietica tra il 1967 e il 1992, ma una sicura testimoniata del rinnovato interesse di Mosca per il quadrante. E' in quest'ottica che va letto l'interessamento di Putin per il salvataggio di Cipro, che, in ottica futura, potrebbe sostituire una Siria dal destino sempre più in bilico, con il governo di Assad sempre più vicino alla caduta, ora che l'Occidente ha iniziato apertamente a parlare di armare gli insorti. Il canale di trattative aperto con Nicosia per la ristrutturazione del debito delle banche cipriote, oltre quello di salvaguardare le ingenti somme di denaro russo depositate nelle banche dell'isola, ha il preciso fine di assicurarsi un nuovo partner politico e commerciale ed una nuova base che possa sostituire il porto di Tartus sulla costa della Siria. In gioco c'è, in primis, l'esclusiva sullo sfruttamento dei giacimenti di gas naturale "Afrodite", su cui ha già messo gli occhi la Turchia: è per questo motivo che al viagigo diplomatico da Nicosia a Mosca ha preso parte, oltre al ministro delel finanze, anche il ministro dell'Energia che ha incontrato i dirigenti di Gazprom. In secundis, c'è l'installazione di una base militare russa sull'isola che possa contrastare il potere della Sesta flotta americana già presente nell'area.
 
A proposito di Siria, durante il viaggio in Israele di Obama (che ha parlato di una eterna alleanza, di sapore biblico, tra Stati Uniti ed Israele) il ministro dell'Intelligence e degli affari strategici israeliano, Yuval Steinitz, ha continuato a denunciare l'utilizzo di armi chimiche da parte di Assad (smentito anche dall'ambasciatore americano in Siria), proprio una delle red line fissate dalla Casa Bianca per un eventuale intervento militare contro Damasco. Intervento che si fa sempre più vicino all'orizzonte.
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martedì 19 marzo 2013


A Gaza la rete elettrica riceve la metà dei megawatt necessari (167 a fronte di un fabbisogno di 300/350) e la luce manca in media per 8 ore al giorno. I più fortunati hanno generatori a benzina, ma anche la benzina finisce e allora ci si adatta con un adattatore attaccato alla batteria della macchina; i meno fortunati si accontentano di una candela, attenti a non dimenticarla accesa perché la casa non bruci come già successo un paio di volte negli ultimi mesi. A Gaza il maggior fornitore di energia elettrica è l'israeliana Israeli Electric Company (120 megawatt, il 71,9%) perché la Gaza Power Plant (GPP), l'unica centrale elettrica dei Territori Occupati, produce solo 30 megawatt (18%). Questa è figlia degli accordi di Oslo e dell'investimento di un gruppo di privati arabi ed americani, prima su tutti la multinazionale libanese Consolidated Contractors Company (CCC), leader nel settore edilizio, che, dopo aver speculato sulla ricostruzione del Kuwait dopo la prima guerra del Golfo e dopo aver costruito oleodotti nello Yemen, fonda la Palestinian Electric Company (PEC), compagnia che possiede al 99% la Gaza Power Generating Company (CPGC), società di gestione della centrale di Gaza. Sia detto per inciso, al momento della sua fondazione le azioni della PEC erano per il 33% di proprietà della CCC, per il 33% della Enron, sostituita, dopo il noto fallimento del 2002, dalla Morganti. L'interessamento per l'elettricità di Gaza nasce da un contratto capestro ventennale stipulato nel 2004 con l'Autorità palestinese che, indipendentemente da quanto realmente prodotto dalla centrale, si è impegnata a pagare ogni mese 2,5 milioni di dollari per l'acquisto del carburante necessario. D'altronde la Gaza Power Plant non è mai riuscita a produrre quanto pattuito, vuoi perché nel 2006 l'aviazione israeliana ha distrutto tre trasformatori su sei, vuoi perché Israele dal 2007 ha dimezzato le importazioni di petrolio: ciò nonostante ogni mese l'Autorità Nazionale Palestinese ha rispettato il suo impegno e pagato quanto dovuto. Considerato l'investimento iniziale di 150 milioni di dollari per la costruzione della centrale, considerati i 240 milioni ricevuti dall'ANP dal 2004 ad oggi e considerato il prezzo dell'elettricità prodotta (tra le 4 e le 7 volte più cara di quella importata da Israele o dall'Egitto), un vero affare per gli investitori privati, a tutto scapito delle casse statali e della qualità di vita del popolo palestinese. Vista la chiusura dei rubinetti israeliani, sono l’Unione Europea e, unilateralmente, alcuni paesi membri e la Svizzera che dal 2006 hanno preso in carico la totale fornitura del gasolio per la centrale con una spesa calcolata fino ad oggi di oltre 300 milioni di euro, versati nelle casse della Dor Alon 1988 ltd, compagnia petrolifera israeliana che agisce nei Territori Occupati da monopolista, e con la quale l’Anp era già sotto contratto. Un contratto strano, che nessuno ha mai letto e che permette allo stato Israele di incassare l'1% della spesa per i "costi di struttura": l'1% di 300 milioni sono 3 milioni di euro transitati da Bruxelles a Tel Aviv. Una situazione paradossale perché a meno di 20 miglia dalla costa, dunque nello spazio di competenza economica dell'ANP sulla base degli accordi di Oslo, vi sono giacimenti di gas naturale con riserve per 15 anni (le licenze di sfruttamento sono al 60% della British Gas, al 30% della CCC e al 10% del fondo sovrano palestinese Palestinian Investiment Fund), ma Israele non ha ancora dato la sua autorizzazione alle operazioni di estrazione e distribuzione del gas, che, tra l'altro, comporterebbe l'afflusso nelle casse dell'ANP del 22% dei profitti dalla vendita. Nel frattempo, per il profitto di pochi, le case e gli ospedali di Gaza restano al buio.
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giovedì 7 febbraio 2013




Venerdì 15 febbraio 2012, alle h.19, presso i locali del Nuovo Cinema Augustus, la rivista Lotta Europea, in collaborazione con il Movimento Sociale per l’Europa, presenterà la conferenza “l’Altra America” incentrata sull’America Latina, i suoi attuali sviluppi politici e le sue inferenze geopolitiche.

Interverrà Fabrizio Di Ernesto, saggista e giornalista, autore, tra l’altro, del libro “L’alba del nuovo mondo. Come il continente indio-latino ha smesso di essere il giardino di casa degli Stati Uniti” e curatore dell’editoriale del 4° numero della rivista Lotta Europea, il quale verrà presentato pubblicamente durante la conferenza.

venerdì 15 febbraio 2012, H.19.00
Nuovo Cinema Augustus – C.so Vittorio Emanuele II, 203 – Roma
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domenica 3 febbraio 2013

La guerra mai dichiarata dagli Stati Uniti in Pakistan sta dimostrando, caso mai ce ne fosse ancora bisogno, il ruolo centrale dei droni, gli aerei senza pilota governati da terra a distanza con un joystick e lo schermo di un pc, nelle guerre attuali e future: secondo uno studio del Dipartimento diritti umani dell'Università di Stanford, i droni in un decennio hanno ucciso in Pakistan circa tremila persone, di cui un numero imprecisato di civili, tra i 474 e gli 881 (176 minorenni), smentendo, nei fatti, il mito degli attacchi mirati.
Intanto l'ONU ha avviato un'inchiesta sulle vittime civile di 25 attacchi portati dai droni oltre che in Pakistan, anche in Afghanistan, nello Yemen, in Somalia e nei Territori Palestinesi: quale sarà il risultato dell'inchiesta, l'ennesima farsa delle Nazioni Unite, lo si evince dalle parole di Ben Emmerson, l'avvocato a guida dell'indagine, che, nonostante l'evidenza delle aree coinvolte, che chiamano in causa unicamente gli Stati Uniti ed Israele, ha negato che l'inchiesta sia rivolta contro i due paesi, in quanto "la tecnologia dei droni è in dotazione a 51 Paesi".
La novità è che la base aerea siciliana di Sigonella, al centro del Mediterraneo, sarà "la prossima capitale mondiale dei droni", come svelato dalla rivista The Avionist (ripresa in Italia dal Corriere della Sera). Non è un caso che proprio da Saigonella (come la chiama l'aeronautica yankee per assonanza con il nome della città vietnamita), siano partiti i caccia ed il drone che hanno colpito l'auto di Gheddafi in fuga verso il Mali.
Di fronte all'ennesimo schiaffo all'indipendenza e alla sovranità dell'Europa, dell'Italia e della Sicilia, che fa seguito alla stazione MUOS di Niscemi in via di realizzazione, non possiamo che gridare ancora una volta: fuori l'Europa dalla NATO, fuori la NATO dall'Europa!
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martedì 29 gennaio 2013

A mezza bocca e mai direttamente, Israele ha ammesso il suo coinvolgimento nell'esplosione di lunedì scorso a Fordo, centrale sotterranea, fulcro del programma nucleare iraniano. La notizia, resa pubblica dall'ex ministro iraniano della Sicurezza Hamid Reza Zakeri e dall'ex guardia della rivoluzione Reza Kahlili (entrambi espatriati da un paio d'anni, il secondo collaboratore della CIA), è stata rilanciata prima dal Times e poi dall'israeliano Tedioth che ha parlato del "più importante sabotaggio al programma nucleare iraniano". Più neutrali le parole ufficiali del governo di Tel Aviv che, per mezzo del ministro Avi Dichter, pur non intestandosi l'atto di sabotaggio, ha affermato che "ogni esplosione in Iran che non ferisce la gente ma colpisce le sue attività è benvenuta". E' dal 2009 che l'esercito americano studia il sito di Fordo e il Sunday Times ha anche rivelato che a Fordo è esploso un dispositivo spia camuffato da roccia che stava intercettando dati sensibili dai computer del centro.
Quale che sia la verità sulle esplosioni di lunedì scorso, è sicuro che, mentre sugli schermi cinematografici dell'Occidente, il film "Argo" ci mostra la difesa dei democratici statunitensi dalla barbarie e dall'inciviltà iraniana nel 1979/80, Stati Uniti ed Israele si preparano ad "un'operazione chirurgica" contro gli ayatollah: "come uno scalpello" ha detto Ehud Barak in riunione a Davos.
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sabato 26 gennaio 2013

Cosa è successo al Monte dei Paschi di Siena? Perché la banca più antica del mondo attualmente in attività è sull'ordo del crack finanziario, facendo tremare le vene e i polsi a gran parte del mondo politico? Tutto ha avuto inizio quando "il rinvenimento di documenti tenuti celati all'Autorità di Vigilanza e portati alla luce dalla nuova dirigenza di MPS" ha fatto emergere "la vera natura di alcune operazioni riguardanti il Monte dei Paschi di Siena riportate dalla stampa": fin qui le parole di una nota di Banca d'Italia, ma quali sono queste operazioni e quale è la loro natura?
La risposta si trova nei 6,2 miliardi di perdite accumulati dal 2011 ai primi nove mesi del 2012, nei titoli di stato posseduti per 26 miliardi (due volte e mezzo il capitale stesso della banca), negli 11 miliardi di derivati e nei 17 miliardi di crediti a rischio che hanno costretto MPS a richiedere al Tesoro i soldi dei contribuenti, sotto forma di titoli speciali: sono i Monti bond, emanati dal Tesoro per un valore di due miliardi, che si aggiungono ai già versati 1,9 miliardi di Tremonti bond del 2009. Debiti e perdite derivati, in gran parte, dall’acquisizione dell'Antonveneta dal Banco di Santander, costata 9 miliardi di euro poi saliti a 10, tre più di quanto fosse costata al venditore, 5 o 6 più del reale valore patrimoniale: abbastanza per suscitare i sospetti della magistratura che ha aperto un’inchiesta per aggiotaggio (oltre che per ostacolo alla Vigilanza) e per accendere i riflettori su altre operazioni dai nomi di mete turistiche come Alexandria e Santorini (essenzialmente, operazioni in derivati compiute con la giapponese Nomura per ottenere utili da ripagare in futuro per finanziare la fondazione).
Al di là dei tecnicismi e al di là dell’inchiesta della magistratura, restano nell’ombra i rapporti politici e la rete di relazioni intessute in quella che è una delle città massoniche del centro Italia. E rimane senza risposta le domanda più ovvie e banale. Perché la scalata ad Antonveneta ed il debito accumulato? Perché il coperchio è stato sollevato e le verità stanno lentamente e con difficoltà saltando fuori? La risposta l’ha data Cingolani su Il Foglio Quotidiano: Mussari, allora presidente di MPS, “si è fidato troppo della propria abilità, delle protezioni eccellenti, di quel sistema senese che mette insieme la curia, la massoneria, i sindacati, gli ex socialisti e gli ex comunisti”.
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Lotta Europea n°4
 
Il quarto numero del bimestrale europeista Lotta Europea è online, come sempre consultabile gratuitamente. Chiunque volesse sostenere la nostra lotta e le nostre iniziative editoriali, può comunque farlo acquistando la singola copia cartacea (3€) o abbonandosi a 6 uscite (18 €).
Oltre che online, a Roma la rivista è in vendita nei seguenti punti:
- Sezione Prati, Via Ottaviano, 9, (mercoledì e venerdì dalle 17.00 alle 20.00)
- Augustus pub, C.so V.Emanuele II, 203, entrata in vicolo della Cancelleria (tutti i giorni dalle 18.00 fino a tarda notte).
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martedì 22 gennaio 2013


Il 29 gennaio prossimo a Parigi l’Assemblée Nationale discuterà il progetto di legge avanzato da Hollande “Matrimonio per tutti”, teso a legalizzare le nozze tra persone dello stesso sesso. In Francia, il paese del giacobinismo e dei lumi, diversamente da molti altri stati europei, la legge non distingue tra matrimonio e adozione, permettendo a tutte le coppie sposate di adottare: questo significa, quindi, che la legalizzazione del matrimonio omosessuale comprende automaticamente ope legis la possibilità di adozione. Mentre l’Europa di Bruxelles, asservita alle lobby omosessuali e sepolcro imbiancato del politically correct, strizza l’occhio ad Hollande, il 13 gennaio scorso il popolo francese è sceso in pizza: 800mila persone, senza alcun politicante in testa, hanno sfilato per le vie di Parigi gridando il loro rifiuto verso un progetto di legge che ribalta l’ordine naturale delle cose, annulla il valore della famiglia tradizionale e pregiudica in maniera irreversibile il futuro dlle vittime innocenti dei giochi degli adulti, i bambini.
"Noi non vogliamo il matrimonio, che è riservato all’uomo e alla donna in quanto possono procreare. È così da secoli. La pace si costruisce dentro la famiglia e per avere pace nella famiglia bisogna donare ai bambini il quadro più naturale e che più infonde sicurezza per crescere e diventare grandi. Cioè la composizione classica uomo-donna": lo ha detto Nathalie de Williencourt, portavoce di HomoVox. Ogni tanto capita ancora di ascoltare una voce ragionevole.
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venerdì 18 gennaio 2013

Mentre proseguono gli incontri e le trattative fra Hamas e Fatah per una loro riconciliazione, e mentre l'sercito israeliano spara sulla folla durante una manifestazione contro il muro in Cisgiordania (un morto, diciassettene, il 14 gennaio scorso a Burdus), il premier israeliano Netanyahu, che si appresta a vincere le elezioni politiche del 22 gennaio p.v., parla alla pancia del suo partito (il Likud) e del suo paese, solleticandone gli istinti più reconditi, affermando che l'eventuale accordo fra l'Autorità Nazionale Palestinese ed il governo di Gaza precluderebbe la ripresa dei negoziati di pace israelo-palestinesi. Negoziati che comunque non avrebbero, a suo avviso, motivo di esistere se Mahmud Abbas, presidente dell'ANP e leader di Fatah, continuerà imperterrito nelle sue "irragionevoli" richieste, preliminari e necessarie per qualsiasi intesa:il blocco delle costruzioni nelle colonie israeliane della Cisgiordania e nella parte orientale di Gerusalemme, che pure è, anche in base ai trattati internazionali (è utile ribadirlo), la capitale del futuro Stato di Palestina. Intanto, stando alle accuse dell'ex-premier Olmert, 3 miliardi di dollari sono già stati stanziati per l'organizzazione della guerra all'Iran.
Non per questo risulta credibile la sua principale oppositrice, Tzipi Livni, nel momento in cui si dichiara diplomaticamente pronta ad aprire una nuova stagione di trattative con l'ANP: da ministro degli Esteri nel 2009 promosse l’operazione Piombo Fuso su Gaza, provocando la morte di 1400 uomini.
A destra del Likud cresce invece Habayit Hayehudi ("la casa degli ebrei"), il partito di Naftali Bennett, già leader di Yesha, il movimento delle colonie, e ancor prima militare nelle Sayeret Metkal. Il suo programma: autonomia palestinese sotto il controllo militare israeliano nelle aree A e B della Cisgiordania, e annessione dell'area C, ossia di quel 60% della Cisgiordania dove sono sorte le colonie.
Il futuro è fosco in Palestina.
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