Lotta Europea

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mercoledì 21 dicembre 2011

Il 20 marzo 2003 le truppe statunitensi invadevano l'Iraq. Domenica scorsa, 18 dicembre 2011, l'ultimo convoglio a stelle e strisce, composto da 500 militari a bordo di 110 auto, si è ritirato dall'Iraq, attraversando la frontiera con il Quwait. Si è conclusa così dopo quasi 9 anni una guerra iniziata nel nome della ''libertà'' e della ''pace'' con il fine di stabilizzare il paese e di deporre l'allora presidente Saddam Hussein, fino a pochi anni prima sostenuto dalla stessa Washington in funzione anti-irachena. Si è concluso un attacco illegittimo, perpretato contro un popolo piegato da anni di embargo criminale e aggredito in base a prove false e manipolate.

E' dunque tempo di bilanci e mentre gli Stati Uniti amplificano i propri risultati (''Rispettiamo le decisioni di un Iraq sovrano e plaudiamo al fatto che gli iracheni siano ormai pienamente responsabili dell’indirizzare il proprio cammino'', ha detto il generale Robert Caslen), la situazione laciata sul terreno è differente: l'Iraq è un paese distrutto, disgregato socialemente ed economicamente, instabile e pericoloso. Ne è una prova la profonda crisi che sta investendo la politica nazionale a seguito della decisione di sospendere la propria partecipazione ai lavori parlamentari annunciata dal blocco laico Iraqiya, guidato dall'ex-premier Iyad Allawi. Non stiamo parlando di un out-sider della politica locale ma di uno degli uomini USA nel paese, allevato nei corridoi della CIA e piazzato al governo nel 2003 dall’ex plenipotenziario statunitense in Iraq, Paul Bremer. L'accusa mossa all'attuale premier Nuri al Maliki è quella di "ignorare gli altri partiti, di politicizzare la giustizia, di favorire l’esercizio solitario del potere e la violazione delle leggi”.

L'instabilità politica del nuovo Iraq nato sotto il tutoraggio statunitense è la prova più evidente del fallimento della missione statunitense. Un fallimento a metà, dato che i veri obiettivi economici e strategici di Washington sono stati raggiunti, così che non c'era più alcun motivo per rimanere impantanati in un territorio instabile e pericoloso.
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giovedì 15 dicembre 2011

Negli ultimi mesi, l’oceano che separa gli Stati Uniti dalla Russia si è espanso e raffreddato.

Alle già note discussioni sullo scudo missilistico USA e sulle relazioni di Mosca con Damasco e Teheran, si sono aggiunte le accuse della Clinton che, senza aspettare il report degli inviati, ha denunciato i presunti brogli nelle elezioni legislative del 4 dicembre scorso, svolte senza "libertà e correttezza". Strani brogli, se il partito di Putin è sceso quasi del 15% rispetto al 2007, racimolando meno voti di quelli previsti: un risultato che ha fatto parlare i media di tramonto dell'era Putin, nonostante il suo 49,6% (numeri ben lontani da quelli dei partiti nostranti). A preoccupare il Cremlino sono le migliaia di persone scese in piazza, contro la "dittatura" di Putin, sostenute pubblicamente da Hilary Clinton: "gli Stati Uniti sostengono i diritti e le aspirazioni del popolo russo e vogliano aiutarli a realizzare un futuro migliore''. Come nei paesi della Primavera Araba. Come nei paesi delle Rivoluzioni Colorate.

Sarà la Rivoluzione Bianca?
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lunedì 12 dicembre 2011

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mercoledì 7 dicembre 2011

Le pedine sono state posizionate da tempo, è ora che comincino ad essere mosse. Lo scorso 8 novembre l’AIEA ha stilato un rapporto nel quale esprime la certezza che dietro al programma nucleare civile, Teheran ne nasconda uno militare, potenzialmente pericosoloso per l'intero Occidente. Sono seguite le ovvie sanzioni di turno con i relativi congelamenti dei fondi, l’indignazione popolare e l’inasprimento dei rapporti diplomatici con Londra. Come in relazione alla Siria, la Russia e la Cina si sono opposte alle sanzioni, determinando una forte presa di posizione che potrebbe risultare fondamentale per le mosse future.
Ma se nel gioco degli scacchi muovono per primi i bianchi, che tutto il mondo identifica con lo stato degli ayatollah, accusato di progettare l’atomica, la situazione in realtà non appare così chiara, perché da anni alle azioni evidenti si sono sovrapposti più efficaci interventi segreti. A partire dai recenti “incidenti” che diverse analisi ricollegano al Mossad: l’esplosione di un impianto nucleare a Isfhan ed un'altra che ha provocato la parziale distruzione di una base missilistica vicino Teheran. Ricordiamo anche la deflagrazione di una base con missili a medio raggio nell’ottobre 2010, l’uccisione dello scienziato nucleare Dariush Rezai e quella dell'ingegnere nucleare Majid Shahriari, nonché la diffusione del virus informatico Stuxnet che l’anno scorso mandò in tilt le centrifughe degli impianti atomici.

"Sicuramente" solo sfortunati incidenti. Così come è solo un caso che il Pentagono abbia fornito ad Israele bombe anti-bunker che possono colpire in profondità, riuscendo persino a far esplodere le centrali nucleari iraniane. Così come è solo un caso il recente abbattimento del drone americano RQ-170 Sentinel in “ricognizione” in territorio iraniano, avvenuto grazie alle tecnologie cyber-belliche fornite da Mosca. Sia detto per inciso: fino a qualche tempo fa gli USA smentivano anche soltanto di possedere tali aerei.

E se Ahmadinejad muovesse le pedine nere, quelle destinate non ad aprire le ostilità ma a subire il primo attacco?

E per quanto tempo ancora gli USA riusciranno a nascondere il proprio ruolo di kibitzer (un termine yddish che individua chi si diverte guardando gli altri affrontarsi davanti ad una scacchiera)?
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